Gaetano Salvemini nacque a Molfetta e fu professore
universitario all’Università di Firenze, e sono interessanti le sue
considerazioni sul ruolo delle Università in genere e di quella Napoletana in
specie, cui rimprovera di venire largamente meno al ruolo formativo delle nuove
generazioni. Di fondamentale rilievo le considerazioni sul significato della
cultura sia nel profilo specialistico che non deve e non può mancare,
nell’ambito del quale lo specialista, consapevole di non poter sapere tutto
neppure nel suo campo , per limitato che sia, deve acquisire una capacità di
apprendere di interpretare e quindi conoscere la propria specialità.
D’altra parte vi è la
cultura generale , il sapere di tutto un po’ che sola integra l’uomo nella
società e che pure sembra rispondere a ciò che non necessariamente debba essere
utile: il sapere disinteressato.
Egli ci parla dello studente Cocò che frequenta l’Università di Napoli e ci
dà uno spaccato emblematico e ancora attuale della corruzione dei costumi e
della cultura, nelle sue diverse sfumature nazionali, tuttora tragicamente
attuali.
Così pure si evidenzia il legame necessario tra questa
cultura dominante e l’incapacità dei partiti di tenere azioni coerenti con gli
ideali proclamati non riuscendo ad andare al di là dei propri privilegi. Il
fenomeno anzi è ancora più evidente nei partiti, tutti , proprio perché in essi
predominano coloro che non hanno altro impiego.
Salvemini fu uomo politico e in particolare militò nell’area
socialista e visse tutti i travagli e i conflitti di quel movimento. Di grande
interesse ed attualità le differenti condizioni del sud e del nord, così come
si rispecchiavano all’interno dello stesso partito socialista per effetto del
diverso peso e presenza delle classi sociali.
La classe lavoratrice del nord che accanto a quella rurale
vede una significativa presenza di quella industriale ha un ben altro peso
politico ed economico rispetto a quella rurale del sud, priva generalmente del
diritto di voto per effetto dello straripante analfabetismo. Egli vede nella
piccola borghesia la classe dominante di quell’epoca. Siamo agli inizi del
secolo XX ma anche questa classe di esercenti, piccoli appaltatori,
professionisti, impiegati, spostati finisce con giocare un ruolo diverso al sud
e al nord. Qui bilanciandosi tra la borghesia capitalista e proprietaria e
quella parte della classe lavoratrice che gode del diritto elettorale e,
spostandosi di qua e di la nelle elezioni, determina la vittoria, come l’ago di
una bilancia. Nel Sud ,invece essa è la classe assolutamente dominante e ha il
monopolio quasi incontrastato e a differenza del nord il suo potere non essendo
bilanciato si rivela deleterio.
Salvemini punta tutto sulla cultura e significativa è la sua
profonda attenzione ed analisi sul ruolo fondamentale della scuola e sul senso
dell’insegnamento.
Di qui anche il collegamento stretto con la questione
dell’introduzione del suffragio universale che solo potrebbe distruggere il
monopolio amministrativo e politico delle camorre locali. In questo circolo
vizioso il governo e lo stesso parlamento sembrano rispondere funzionalmente
alla logica di una vera e propria banda i cui equilibri sono assicurati da
Giolitti, il ministro della malavita,
Salvemini fu anche il fondatore dell’Unità dopo che fu uscito
dal partito. Avversò il fascimo e si recò in esilio negli stati Uniti.
Sulla questione meridionale, tuttora non risolta, ne esplora
acutamente le cause storiche e contemporanee, rinvenendo le origini dello
squilibrio economico e sociale nella stessa unità di Italia che considera
frutto di una sorta di conquista dei piemontesi e richiama una serie di luoghi
comuni oggi ancora di moda. Curiose coincidenze sia pure muovendo da intenti e
convinzioni radicalmente opposte ricorrono tra il federalismo di Salvemini e
quello della lega, così pure l’individuazione di Roma come epicentro del male affare, di uno Stato
centrale mancipio di un pugno di affaristi, accentratore, divoratore e
distruttore.
Da questa conquista derivarono effetti economici devastanti
per il Mezzogiorno e ne conseguì una squilibrata distribuzione delle
ricchezze e squilibri sul carico
tributario.
Infine voglio ricordare alcuni passaggi illuminanti sulla
funzione della scuola e sull’insegnamento con la impressione che il quadro
normativo cui faceva riferimento il Salvemini fosse molto più rispondente di
quanto lo sia oggi all’idea della libertà di insegnamento e della laicità della
scuola.
Non vi è qui lo spazio e il tempo per dimostrare questa
impressione.
La scuola è laica quando non ha il compito di indottrinare ,
di inculcare valori precostituiti e il pericolo che ciò accada non viene solo
dalle componenti religiose ma anche da altri soggetti. Il Salvemini ricorda che
lo stesso Mazzini prometteva a Daniel Stern che appena fosse intervenuta la sua
rivoluzione avrebbe destituito tutti i professori hegeliani dell’Università di
Napoli.
Quando fu Ministro dell’Istruzione l’On Nasi la massoneria
fece e disfece dispoticamente la Minerva, il signor Nathan, Gran maestro della
massoneria e alquanto mazziniano, approfittò del momento propizio per fare
imporre come libro di testo nelle scuole “i doveri degli uomini” del Mazzini.
Dalla legge Casati in poi la libertà di insegnamento sembra
sufficientemente garantita a fondamento
della laicità della scuola ma Salvemini avverte che sono gli stessi insegnanti
a dover garantire questa loro prerogativa dai molteplici attacchi dell’esterno.
Vengono evidenziati i temi di una corretta pedagogia della ineliminabile personalità del docente
che certo non resta un neutro trasmettitore di nozioni ma che offre la propria
verità ai discenti perché essi possano servirsene per elaborare la propria
identità culturale. L’autonomia del docente si coglie e si rafforza sia nel
momento del reclutamento sia nello sviluppo di collegialità autonome quale il
consiglio superiore dell’istruzione.
La cultura e la laicità sembrano rinviarsi reciprocamente e
si ripresenta inevitabile l’antitesi tra scienza e fede.
Il relativismo predomina con buona pace di chi perora la
causa delle verità assolute.
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