Letto di un fiato e col rammarico che fosse finito questo
libro, di Giuseppe Di Piazza, è un romanzo ma anche un saggio.
Vorrebbe consegnarci il disegno compiuto di una generazione
di palermitani o forse anche di siciliani, enucleandolo da quattro storie
dichiaratamente , in sé, di pura fantasia
ma che assumono la dimensione reale a cura dell’io narrante.
Lungo Corso dei Mille infagottato nella approssimativa
divisa di fante della caserma Ciro Scianna, nella assolata mattina dell’estate
del 1970, apprendevo la notizia che la mafia aveva giustiziato il procuratore
Scaglione, e un decennio prima del nostro autore, avevo modo di sentire nella
mente e nel cuore, il tema fondamentale del rapporto tra amore e morte che Palermo
ci restituisce con toni particolari e inesauribili.
La stagione dei diritti e delle libertà si andava
realizzando in quegli anni che per l’Italia repubblicana e democratica sono
stati gli unici di progresso, ma Palermo
era già un’anomalia, e ai miei occhi di continentale sia pure del sud, la mafia
non era già più un reperto storico e folcloristico, ma era comunque entrata
nella cultura del luogo, anche se pur sempre in modo conflittuale.
Durante la gioventù che si nutre delle meraviglie e delle
miserie di Palermo compare come speranza di una vita diversa, il nord. Una
volta raggiunto subentra il senso di assenza, l’altro canto.
Ho sempre pensato, e questo libro sembra confermare la mia
impressione, che la mafia pur nelle sue storiche trasformazioni sia e resti per
tanti palermitani un male da sconfiggere ma che una sorta di rassegnazione che
alle volte quasi compiace chi pure abbia
alto il senso di libertà e di dignità, sembri suggerire di lasciar stare che
tanto essa è comunque inevitabile perché in qualche modo propria di
quell’ambiente , quasi connaturata.
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