venerdì 14 gennaio 2011

Nato a Taranto: un po’ di me, per quel che mi ricordo.

é un breve racconto che può servire per capire in parte da dove vengo.
Gaspare Torrente , nel romanzo di Paola Mastrocola “ Una barca nel bosco” era emigrato con sua madre a Torino per compiere gli studi liceali.
Sin dai primi periodici rientri al sud, per rincontrare il padre pescatore, si accorse che mai più nulla sarebbe stato come prima e che anche il suo dialogo col genitore era diventato difficile.
Fu così che calcolò che dopotutto , con due viaggi di ritorno all’anno, non sarebbero stati più di quaranta ancora gli incontri con lui!
E si rassegnò a fingere una comunicazione ormai alterata dallo spazio, ma ancor più dal tempo..
Io partìi senza una logica ragione a diciannove anni per frequentare l’Università di Ferrara e senza una vera ragione non sono più tornato, se non per quelle ricorrenze che ,a differenza di Gaspare,non ho mai previsto né quantificato.
A Taranto si è compiuta la mia adolescenza.
Alla domanda ” di dove sei?” io rispondo senza esitazione:di Taranto!.
Ma quaranta anni di lontananza hanno fatto si che i luoghi dell’anima e della memoria, immutabili e rafforzati nella loro staticità abbiano soffocato e prevalso sulla ragione e sulla dimensione civile effettiva tra me e la mia città natale, attenuando fortemente quella vitalità attuale che alimenta gli interessi e la vita quotidiana.
Rimango così stupito quando qualcuno, qui al nord ,sapendo le mie origini, mi chiede cosa sia successo a Taranto.
Mi accorgo di non avere più conoscenza di uomini e di fatti e che le mie chiavi di lettura sono piene di luoghi comuni che mi sono portato nella valigia.
Preferisco glissare e non dire nulla di intelligente.
Sul binario del Taranto Milano, nel Novembre del 1966, tra i lazzi dei nostri compagni di classe che erano venuti a salutarci, quattro di noi partivamo per Ferrara.
Mi è perfettamente chiara l’espressione di quei suoi occhi che incrociai con l’improvviso senso di perdita irreversibile.
La voglia di piangere interruppe bruscamente quei goliardici rumori e un sorriso stentato si fissò sul mio viso.
La mia adolescenza finiva in quella stazione.
Taranto non è per me un luogo della ragione.
Sono i due mari che ho sempre visto dai balconi delle due case che ho abitato in via Berardi, le rondini che sparivano veloci nelle fessure dei palazzi che sembravano fatte a posta per loro.
La fontana della rosa dei venti che quelle poche volte che si illuminò dopo l’inaugurazione, gettava “ aranciata”, la XXV Luglio con i suoi molteplici ingressi ognuno a significare una attività.
Da via Pitagora e da via Viola, i distinti ingressi per maschi e femmine per le elementari, con Direttori e maestri tutti maschi , mai amati e piuttosto temuti, e di cui ricordo anche il nome.
Li davanti, cartelle di cartone e righe, costituivano gli strumenti privilegiati per esprimere la propria aggressività con cartellate e schermaglie.
Grembiuli per tutti, dello stesso colore, ma le distinzioni passavano attraverso le diverse stoffe e fatture. La fascia azzurra, i buoni e cattivi scritti alla lavagna e ,tra i banchi di legno e i calamai, anche quelli che capivi già che non avrebbero mai terminato gli studi, seduti dietro.
Bocciature e lezioni private, maestri unici!
Da un altro ingresso sempre di via Viola, a sei anni, conobbi la pallacanestro e fui mascotte delle prime squadre giovanili della Libertas.
Il custode Bernardino fittava i palloni di cuoio a “cuculino” per qualche ventuno.
Più tardi l’Amatori Ricciardi nella palestra all’aperto, la prima squadra, la rivalità politica e classista per la Fiamma e per l’Ina, il basket americano, il pressing rivoluzionario, la camminata con le punte in dentro che ci distingueva.
Il rimpianto incolmabile di aver sognato la partitissima Pitagora-Archita, una stracittadina assai sentita, abolita l’anno prima.
Se volevi fare calcio ti restava il lato carcere, per la strada, ma il tempo gioco era fortemente condizionato da un buldog che se si impossessava della palla da cento lire di gomma bianca te la bucava e via un’ altra colletta.
Altro che medagliette e museruole per cani.
Piazza Bettolo era più in là ed era per i più grandi.
Alle medie “Vittorio Alfieri” del Preside Greco il cui strabismo ti faceva sentire sempre in colpa, che t’avrebbe visto anche di lato, avevamo a disposizione Piazza Carbonelli e le sue pigne per palla.
Se libera, la rotonda a lungomare con i vigili in moto in agguato dal Palazzo del Governo e pronti a sequestrarti la palla o, in mancanza, uno spicchio di piazza Garibaldi più spesso occupata dagli odiati rivali della Capuana.
Alle superiori San Vito, con l’autobus o con le moto, una ex pista per aeroplani? Una specie di hangar lo ricordava ma sempre e comunque con porte segnate da pietre , cappotti ,libri o borse , senza pali e… ogni tre corner un rigore.
Un campionato vero di calcio ai salesiani, senza le scarpette chiodate, in viale Virgilio con l’indicibile gioia di una porta vera con una rete e i pali.
Il biondino con le girandole alla villa Peripato spesso ci inseguiva, me e mio fratello, non so più per quale biricchinata ; l’ho rivisto di recente tutto bianco e ancora lì alla faccia della mobilità del lavoro.
Avrei voluto raccontarglielo ma non l’ho fatto.
Alla terza media fui bocciato e devo ringraziare il prof. Giovanni Caradonna che nell’estate, non so come, determinò il risveglio del mio orgoglio e mi trasformò da ciuccio in cannone.
Da allora il mio successo scolastico è stato inarrestabile,ho imparato le strategie per essere tra i migliori, i primi, ma non ho più dimenticato l’emarginazione degli ultimi ed è rimasto in me il profondo convincimento che tutti siamo capaci di tutto.
E’ forse questa la radice inconscia del mio relativismo intellettuale , della mia fuga dalle verità assolute anche se di volta in volta sfiorate e ricercate.
Il ponte girevole era stato inaugurato in una ventosa mattina del ’58 e come in una cartolina mi rivedo nel balcone di casa Ferreri.
Gronchi coi suoi bianchi capelli in una berlina nera e scoperta e i suoi corazzieri. Bandiere e bandierine tricolori sventolate dai bambini.
Nel tempo ho trovato altri tarantini che non conoscevo citando per caso quella mattina: anche loro erano stati tra quella folla festosa.
Quante volte avevo attraversato il ponte di barche che dalla stazione torpediniere univa l’isola al borgo, quasi consapevole e curioso testimone dell’approsimarsi di un evento importante quanto lo scavo del fossato del secolo precedente che aveva dato vita al “le pont tournant” unico al mondo.
Avevo già conosciuto il primo amore , da un bacio sotto un letto giocando a nascondino e con esso e per esso l’amore per l’america durato sino alla guerra del Vietnam.
Scuola bus, baseball e giradischi con caduta automatica,il primo juke-box nella galleria del tribunale i primi jeans blu, la città bella in base al numero dei piani, gomme da masticare diverse da quelle italiane, la traduzione di canzoni ancora inedite in Italia.
Tra tutte Are you lonsome toonight , col suo parlato e sua madre che ci scoprì in un bacio innocente ed io che avrei voluto essere altrove.
Poi il Ginnasio, negli orrendi locali di Via Monfalcone, al quarto piano? Erano appartamenti, anni cinquanta, non le belle aule del ventennio ma finalmente classi miste con le ragazze col grembiule. I maschi no ,avevano rigorosamente i pantaloni lunghi, retaggio di un maschilismo, forse in seguito superato.
Quanti bomboloni alla crema alla Livornese e quante partite a calcio balilla con i fazzoletti nella porta, a chi perde paga, e la pallina sempre quella, sino a quando il principale non se ne accorgeva.
Nelle orecchie la ritirata dei marinai che, a suon di marcetta e coi tamburi, dal castello vanno all’Arsenale:sono le dieci di sera e mio padre dà la corda alla sveglietta.
Vincenzo già enzuccio Viglione,

Ferrara, 15 Ottobre 2008


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