domenica 27 maggio 2012

I quattro canti di Palermo


Letto di un fiato e col rammarico che fosse finito questo libro, di Giuseppe Di Piazza, è un romanzo ma anche un saggio.
Vorrebbe consegnarci il disegno compiuto di una generazione di palermitani o forse anche di siciliani, enucleandolo da quattro storie dichiaratamente , in sé, di pura fantasia  ma che assumono la dimensione reale a cura dell’io narrante.
Lungo Corso dei Mille infagottato nella approssimativa divisa di fante della caserma Ciro Scianna, nella assolata mattina dell’estate del 1970, apprendevo la notizia che la mafia aveva giustiziato il procuratore Scaglione, e un decennio prima del nostro autore, avevo modo di sentire nella mente e nel cuore, il tema fondamentale del rapporto tra amore e morte che Palermo ci restituisce con toni particolari e inesauribili.
La stagione dei diritti e delle libertà si andava realizzando in quegli anni che per l’Italia repubblicana e democratica sono stati gli unici di progresso,  ma Palermo era già un’anomalia, e ai miei occhi di continentale sia pure del sud, la mafia non era già più un reperto storico e folcloristico, ma era comunque entrata nella cultura del luogo, anche se pur sempre in modo conflittuale.
Durante la gioventù che si nutre delle meraviglie e delle miserie di Palermo compare come speranza di una vita diversa, il nord. Una volta raggiunto subentra il senso di assenza, l’altro canto.
Ho sempre pensato, e questo libro sembra confermare la mia impressione, che la mafia pur nelle sue storiche trasformazioni sia e resti per tanti palermitani un male da sconfiggere ma che una sorta di rassegnazione che alle volte quasi compiace  chi pure abbia alto il senso di libertà e di dignità, sembri suggerire di lasciar stare che tanto essa è comunque inevitabile perché in qualche modo propria di quell’ambiente , quasi connaturata.

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