martedì 1 maggio 2012

La rivoluzione liberale di Piero Gobetti




Sorprende la brevità della vita di questo pensatore liberale ma rivoluzionario, molto attento a cogliere nella rivoluzione russa il possibile realizzarsi degli interessi del proletariato in una dialettica possibile della storia. La sua attività di giornalista e di editore ai massimi livelli, la laurea in giurisprudenza coi massimi voti sono indizi di una vivacità cerebrale non certo comune.
Tre le riviste da lui fondate, Energie nove, la Rivoluzione liberale e il Baretti.
Questo libro fu edito da Cappelli nel 1924. Egli si oppose strenuamente al fascismo nel quale intravide una sorte di autobiografia della nazione e, come  Montanelli  disse di  Berlusconi  , anch'egli pensò che l'avvento di Mussolini avrebbe, attraverso la tirannia, risvegliato la reazione degli italiani.
Egli fu un liberale sino in fondo convinto che la storia procedesse proprio nel raffronto delle diversità e che la politica fosse il mezzo per rappresentare anche gli interessi  responsabilmente coltivati dalle varie parti sociali..
E' interessante riprendere lo scopo dichiarato da Gobetti della Rivoluzione liberale come attuativa di un compito di formazione spirituale dei giovani del dopoguerra 1915-1918.
Per l'inserimento nella vita politica dell'Italia, per migliorarvi i costumi e le idee, educando se stessi si educano anche gli altri.
Può essere che per alcuni di noi la politica , coi suoi imprevisti e con l'iniziazione diplomatica, costituisca proprio una sorta di esperienza artistica di tutto l'uomo.
La dimensione liberistica di Gobetti gli fa ricordare che il Cavour ammoniva che il Ministero non può fare l'ufficio del giornalista.
E' forte in lui l'idea di autonomia e quindi di responsabilità che legittima una sorta di conflitto continuo dei vari interessi organizzati che proprio attraverso l'azione politica trovano continua composizione. Di qui la convinzione della positività della classe operaia , in un certo senso attrice della storia non attraverso la rivoluzione come in Russia ma attraverso la sua lotta nei luoghi di lavoro per una trasformazione in senso liberistico e non protezionistico della economia del paese.
Con questa idea di fondo si legittima il confronto dialettico degli interessi, e si persegue il vero interesse generale che è quello di rendere possibile proprio il confronto partecipato degli interessi.
L'idea liberale va realizzata anche attraverso il liberismo economico ma non solo.
Tale concezione è chiave di lettura dell'azione politica, della vita dei partiti stessi, della questione meridionale e della situazione agraria.
Gobetti ripercorre le tappe del risorgimento con questa idea di fondo, giungendo ai suoi tempi di dittatura e proiettandosi verso un futuro di democrazia.
Il contrasto vero non è tra dittatura e libertà ma tra libertà e unanimità.
Da ciò l'implicito rispetto delle diversità auspicabili e necessarie di qui la predilizione dell'autonomia nei riguardi dell'autorità.
Lamenta che dopo l'unità di Italia il liberalismo non si fosse affermato nella sua dimensione individualistica ed autonoma ma che il protezionismo fosse prevalso in economia e la politica di parassitismo e la parola d'ordine delle classi inferiori fosse la ricerca di un sussidio.
L'agricoltura sia intensiva del nord che estensiva del sud finiscono col costituire l'aspetto conservatore di una pratica liberale nella quale i proprietari resistono nella difesa eterna dei propri diritti.
L'industria alimenta nel nord un liberalismo di avanguardia.
La fabbrica educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale ma non spegne le forze della ribellione.
Vi è poi il concetto di elite come fortemente democratico. Concetto che mi pare ritorni esplicitamente in Augusto del Noce come connaturato a quello democratico. In Gobetti essa sembra la sintesi delle aristocrazie di ciascun ceto e gli stessi partiti sono espressione di questa dialettica mediatrice di interessi..
Riportiamo il passo in cui descrive chi non poteva dirsi liberale:” i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative” .
Seguono considerazioni su vari uomini politici da Toniolo (1845-1918) a Meda, da Sturzo al quale riconosce un sostanziale e laico rispetto della libertà dello Stato dalla Chiesa.
 Della sua complessa panoramica dei partiti e dei movimenti di allora che non ci riesce di riportare qui, riferiamo che quando parla del pensiero repubblicano verso il Parlamento lo troviamo partecipe ” della comune aspettazione dal governo tecnico e competente “ e che la storia recente aveva mostrato in modo inconcusso la superiorità degli incompetenti sui competenti.
Noto anche questo passo sul federalismo: ”Il federalismo per spiriti non negati alla cultura conserva le suggestioni dell'eresia più accreditata che sia sorta nella nostra storia politica.
Il vessillo dell'autonomia e del decentramento nasconde sfumature e risorse complesse ed impreviste: del regionalismo è facile rinnovare di fronte alle esigenze ricorrenti i sensi e le suggestioni; la modestia dell'insegnamento economico non è fuor di luogo nell'Italia moderna, il mito libertario sta per diventare laborioso e doveroso.
In un regime intollerante di critica e di autonomia, sotto un governo dispotico, queste sfumature di indagini e delicatezze di metodo hanno un compito ben preciso di difesa per l'avvenire, anche se non ne scaturisca oggi un imperativo di azione tutto chiaro.
Il sistema proporzionale voluto in Italia da Sturzo e Donati si rivelò utile nel creare le condizioni della lotta politica e del normale svolgimento dell'opera dei partiti: esso obbliga gli individui a battersi per una idea, vuole che gli interessi si organizzino, che l'economia sia elaborata dalla politica.
Ricordo che l'avvento del sistema maggioritario, fondato peraltro sulla ricerca del bipolarismo nell'ultima parte del ventesimo secolo si accompagnò, sulla scorta anche della caduta della cosiddetta prima repubblica apparentemente travolta dalla questione morale al coro inneggiante alla morte delle ideologie.
Dietro tale affermazione passava in realtà l'invito ad una sorta di pragmatica ricerca del successo elettorale per essere legittimati, poi, ad amministrare senza il controllo e la partecipazione proprio del Parlamento perchè del contributo delle idee si potrebbe fare a meno.
Di qui l'inutilità di visioni generali differenziate, di qui il consolidarsi dei partiti come macchine di potere autoreferenziali, da qui l'abolizione del diritto del popolo di scegliere i propri rappresentanti.
Sono i fascisti che storicamente lottarono contro la proporzionale .
Dove prevale senza incertezze una maggioranza si ha nient'altro che una oligarchia larvata: l'arma del ricatto diventa il sistema con cui il tiranno può asservire ai suoi istinti gli eserciti delle democrazie votanti. I blocchi e le concentrazioni sono il sistema del semplicismo in cerca di unanimità.
L'Italia di Nitti con la sua proporzionare resta per Gobetti il primo esempio della capacità degli italiani a vivere in un regime di democrazia moderna , fuori di esso non si ebbe che il Medio Evo di Mussolini. L'elogio della proporzionale risulta interessante forse anche per i le ragioni per cui la nefanda legge elettorale “porcellum” non ha trovato dignitose opposizioni in un popolo ormai asservito ad una parodia di democrazia.
Il problema della scuola.
Interessante ma non lo riporto se non per alcune affermazioni che prescindono dai particolari storici e che mi piacciono .
Solo uno stato teocratico può rivendicare il diritto al monopolio scolastico: loStato moderno non ha una funzione patriarcale di educatore e chi parla di un'etica di Stato, parla per metafora.
Interessante  notare  le idee di Gobetti sul valore legale dei diplomi e sul livello di cultura dell'Università, inferiore a quello della società civile
Un cenno finale al Mussolinismo,  più grave del fascismo stesso. Sembra un anticipo del Berlusconismo: Il mussolinismo è dunque un risultato assai più grave del fascismo stesso perchè ha confermato nel popolo l'abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal Duce, dal domatore, dal deus ex machina, la propria salvezza

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